Nel mondo della protezione dei dati personali, il consenso è spesso percepito come una formula magica capace di risolvere ogni problema di compliance. In realtà, il Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) lo considera una delle diverse basi giuridiche su cui si può fondare un trattamento — e non certo la più comoda o universale.
Tuttavia, molte PMI, enti e organizzazioni continuano a utilizzarlo come un “jolly” giuridico, chiedendo all’interessato di autorizzare qualsiasi trattamento: dalla gestione del contratto alla fatturazione, fino alla semplice iscrizione a un servizio informativo. Il risultato? Un consenso inutile quando non serve, e pericoloso quando manca la prova della sua corretta acquisizione.
Il falso mito del consenso universale
L’articolo 6 del GDPR elenca le basi giuridiche legittime per trattare dati personali. Il consenso è solo una di esse, accanto a:
– l’esecuzione di un contratto;
– l’adempimento di un obbligo legale;
– la tutela di interessi vitali;
– l’esecuzione di un compito di interesse pubblico;
– il legittimo interesse del titolare.
Molte aziende, però, richiedono il consenso anche quando non è necessario. Ad esempio: per l’invio di fatture o la gestione di un ordine (basi contrattuali), per la conservazione dei documenti fiscali (obbligo legale) o per comunicazioni interne ai dipendenti (legittimo interesse o contratto di lavoro).
In questi casi, chiedere il consenso non solo è superfluo, ma può invalidare la legittimità del trattamento: se l’interessato revoca il consenso, l’azienda si troverebbe teoricamente senza base giuridica per continuare l’attività, nonostante fosse perfettamente lecita.
Criticità doppia: forma e sostanza
Il consenso, quando è realmente richiesto, deve rispettare quattro caratteristiche fondamentali (art. 4, par. 11 GDPR):
| Requisito | Significato |
| Libero | Non deve essere condizione per ottenere un servizio o un vantaggio non proporzionato. |
| Specifico | Deve riferirsi a una o più finalità determinate, non a trattamenti generici. |
| Informato | L’interessato deve conoscere chiaramente finalità, destinatari, diritti e modalità di revoca. |
| Revocabile | Deve poter essere ritirato facilmente, in qualsiasi momento, con effetto per il futuro. |
Ma oltre alla forma, conta la tracciabilità del consenso: deve essere dimostrabile. Il titolare del trattamento deve poter provare quando, come e da chi è stato espresso, attraverso log informatici, timestamp, sistemi di conservazione della prova e versioning dell’informativa.
I casi più frequenti di “consenso mal raccolto”
– Moduli cartacei senza data o firma: impossibile dimostrare la provenienza.
– Caselle preselezionate online: consenso non libero.
– Consensi unici per più finalità: consenso non specifico.
– Assenza di registro o log di raccolta: consenso non dimostrabile.
– Revoca impossibile o ignorata: violazione del diritto alla revoca.
Buone pratiche per la gestione del consenso
Per evitare di raccogliere consensi “a vuoto”, le organizzazioni dovrebbero:
| Azione consigliata | Descrizione operativa |
| Analizzare le basi giuridiche | Evitare il consenso quando esiste una base più solida come contratto, obbligo o interesse legittimo. |
| Formulare informative chiare | Distinguere le finalità e spiegare in modo accessibile ogni trattamento. |
| Utilizzare strumenti di tracciamento | Registrare timestamp, versione dell’informativa e log della raccolta. |
| Gestire la revoca | Permettere di ritirare il consenso facilmente, ad esempio con un click o una mail. |
| Archiviare le prove | Conservare le evidenze in modo centralizzato e sicuro. |
Consenso e accountability: due facce della stessa medaglia
L’errore più grave è considerare il consenso un “foglio da firmare” e non un processo di responsabilità. Nel paradigma dell’accountability, il titolare deve poter dimostrare non solo di aver rispettato la norma, ma di aver adottato misure organizzative e tecniche per garantirne l’efficacia nel tempo.
Un consenso raccolto male è un consenso inutile. Un consenso usato male è un boomerang legale. Solo un consenso correttamente gestito, tracciato e contestualizzato è davvero conforme.
Conclusione: dal “sì” automatico alla consapevolezza
Il consenso non è una firma di cortesia, ma un atto di fiducia informata. Richiederlo senza criterio significa banalizzare un diritto e indebolire la relazione con l’interessato. Meglio un consenso in meno ma valido, che cento consensi raccolti male.
Il consenso non è una coperta per coprire l’incertezza giuridica, ma una prova della maturità organizzativa di chi tratta i dati.
