In questi giorni a Sondrio si è parlato di parcheggi. Ma, con un acrobatico passo indietro sul piano linguistico, si è finiti per inciampare — con grazia istituzionale, s’intende — nel termine “diversamente abili”. Una locuzione così goffa, così intellettualmente sciatta, da sembrare uscita da un manuale per il bon ton delle ipocrisie contemporanee.
Con riferimento alle dichiarazioni dell’assessore Del Marco, mi permetto di fermarmi non tanto sul contenuto (che merita la propria sede), quanto su un dettaglio solo apparentemente trascurabile: le parole scelte per parlare di persone con disabilità.
“Diversamente abili”: il più infelice dei gentili eufemismi
Cosa c’è di peggio di un’offesa? Un elogio maldestro.
“Diversamente abile” è una carezza sbagliata, data con la mano sbagliata, nel momento sbagliato.
È un tentativo di ingentilire ciò che non ha bisogno di aggettivi ma di rispetto, di diritti, di precisione.
E infatti:
- Non è un termine previsto da nessuna legge, decreto o convenzione internazionale.
- Non restituisce la realtà delle persone, ma la vela di zucchero filato.
- E soprattutto: sostituisce il diritto con la parabola, trasformando il parcheggio riservato in un gesto di benevolenza per anime sensibili.
Usare “diversamente abili” è come chiamare il Colosseo “arco vagamente rotondo”: un modo per non dire, e nel non dire, nascondere.
Le parole non sono mai innocenti
In ambito pubblico, il linguaggio è più che espressione: è esercizio di potere.
Dire “disabile” è affermare un diritto.
Dire “diversamente abile” è raccontare una favola, dove la persona scompare e rimane solo la morale.
Sarebbe come chiamare “più fortunato del previsto” un cittadino che, dopo anni, ha finalmente ottenuto una rampa per entrare in Comune. È il lessico dell’ambiguità, dell’“inclusione immaginaria”, della gentilezza che cancella la giustizia.
Il vocabolario della legge (e del rispetto)
Nelle norme e nei documenti seri, si parla correttamente di:
- persone con disabilità (Convenzione ONU, UE, MIM);
- titolari di contrassegno disabili (Codice della Strada, Regolamenti comunali);
- invalidi (quando previsto dal linguaggio previdenziale).
Nulla di poetico. Ma tutto di profondamente umano.
Perché il diritto non ha bisogno di fronzoli. Ha bisogno di nomi propri.
Il linguaggio è una scelta morale prima ancora che politica
Se un’amministrazione pubblica parla di “diversamente abili”, sta scegliendo una narrazione accomodante. Sta mettendo un centrino sul tavolo, anziché apparecchiare giustizia.
E allora sì, la discussione sui parcheggi è importante. Ma è la parola usata per descrivere chi ha diritto a quel parcheggio che ci dice tutto.
Soprattutto sulla cultura istituzionale di chi governa.
La civiltà di un’amministrazione non si misura solo dal numero di stalli riservati.
Si misura dal modo in cui nomina le persone che quegli stalli li aspettano, li cercano, e li meritano.
Perché l’inclusione, signori, non passa solo dalle rampe. Passa anche — e forse soprattutto — dal coraggio delle parole.